Ebbene eccoci qua! Dopo un bel po' di tempo torno a proporti, caro lettore, un'inedita recensione di un libro non altrettanto nuovo. La monografia de Il Re Sole – Vita privata e pubblica di Luigi XIV di Guido Gerosa fu difatti pubblicata per la prima volta nel 1998 e ottenne numerose ristampe nei successivi anni. E onestamente non mi spiego come mai tanto successo.
La trama in questo caso mi sembra superflua (per non dire inutile), giacché si tratta di un resoconto della vita di Luigi XIV; perciò seguirò il metodo già adottato nella recensione del Lucrezia Borgia di Gregorovius e farò un riassunto della biografia di questo Grande Re.
Luigi XIV nacque nel Castello Nuovo di Saint Germain-en-Laye il 5 settembre 1638 e morì alla Reggia di Versailles quattro giorni prima di compiere settantasette anni, il 1 settembre 1715. La sua intera esistenza fu costellata da tre grandi passioni: la cultura, l'amore e la guerra. Così come ebbe molte amanti, tale fu il numero dei palazzi e infrastrutture che fece costruire per la Francia e altrettanti furono i conflitti contro i suoi vicini: le Province Unite, la Gran Bretagna, il Sacro Romano Impero Germanico e la Spagna.
Il suo regno fu costellato da grandi vittorie in ogni campo, ma il Re Sole soffrì le più gravi perdite entro i contorni familiari: vide infatti morire uno dopo l'altro tutti i suoi eredi, al punto che nel 1715 gli succederà il bisnipote, Luigi duca d'Angiò, futuro Luigi XV.
Come ho già accennato in apertura, non capisco onestamente il successo ottenuto da questo libro: si parla di tredici ristampe, almeno fino al 2008. Inspiegabile visto che il testo è assai povero e mal redatto. D'altronde non si ci può meravigliare più di tanto, giacché questa monografia non è stata scritta da uno storico, come dovrebbe essere, bensì da un avvocato che è ormai deceduto da più di vent'anni. Quando chi non è della professione si accinge a un compito di non propria competenza, le cose vanno così. Ma cos'ha di sbagliato questo testo?
Prima di dilungarmi (troppo) in una recensione velenosa e avvelenata (ma non campata in aria), è meglio porre qui un'avviso:
Luigi XIV nacque nel Castello Nuovo di Saint Germain-en-Laye il 5 settembre 1638 e morì alla Reggia di Versailles quattro giorni prima di compiere settantasette anni, il 1 settembre 1715. La sua intera esistenza fu costellata da tre grandi passioni: la cultura, l'amore e la guerra. Così come ebbe molte amanti, tale fu il numero dei palazzi e infrastrutture che fece costruire per la Francia e altrettanti furono i conflitti contro i suoi vicini: le Province Unite, la Gran Bretagna, il Sacro Romano Impero Germanico e la Spagna.
Il suo regno fu costellato da grandi vittorie in ogni campo, ma il Re Sole soffrì le più gravi perdite entro i contorni familiari: vide infatti morire uno dopo l'altro tutti i suoi eredi, al punto che nel 1715 gli succederà il bisnipote, Luigi duca d'Angiò, futuro Luigi XV.
Come ho già accennato in apertura, non capisco onestamente il successo ottenuto da questo libro: si parla di tredici ristampe, almeno fino al 2008. Inspiegabile visto che il testo è assai povero e mal redatto. D'altronde non si ci può meravigliare più di tanto, giacché questa monografia non è stata scritta da uno storico, come dovrebbe essere, bensì da un avvocato che è ormai deceduto da più di vent'anni. Quando chi non è della professione si accinge a un compito di non propria competenza, le cose vanno così. Ma cos'ha di sbagliato questo testo?
Prima di dilungarmi (troppo) in una recensione velenosa e avvelenata (ma non campata in aria), è meglio porre qui un'avviso:
Caro lettore se non hai voglia di leggere tutto il papiro, vuoi per pigrizia o per disinteresse o per mancanza di tempo, riassumo il tutto sconsigliando la lettura del presente per evidenti errori grammaticali, ortografici e soprattutto concettuali. Inoltre mancano diversi passaggi della vita pubblica del Re Sole, oscurati dall'attenzione posta agli scandali e ai pettegolezzi; non è dettagliato (tranne negli argomenti interessati all'autore stesso), in molti casi è contraddittorio ed è pieno zeppo di commenti personali davvero poco eleganti (per usare un eufemismo).
Lo scopo di Gerosa è evidente: creare un testo aulico che entrasse nell'Olimpo della storiografia; invece il risultato è una pessima trattazione da sala d'attesa di un salone di bellezza.
Quindi evita questo libro come la Peste.
Se vuoi capire le ragioni di questa mia avversione, prego, procedi pure con la lettura. Sei il benvenuto.
Lo scopo di Gerosa è evidente: creare un testo aulico che entrasse nell'Olimpo della storiografia; invece il risultato è una pessima trattazione da sala d'attesa di un salone di bellezza.
Quindi evita questo libro come la Peste.
Se vuoi capire le ragioni di questa mia avversione, prego, procedi pure con la lettura. Sei il benvenuto.
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Tralasciando gli evidenti e imbarazzanti errori grammaticali e ortografici (ce ne sono un'infinità, da farsi un due domande sulle reali conoscenze dell'autore), le principali note negative di questo testo sono due: i commenti (negativi) e il trasporto dello scrittore verso i personaggi menzionati; lo schema narrativo e la sua impostazione.
Una cosa appare subito chiara: Gerosa non si esimia dall'inserire commenti personali inopportuni, che farebbero rabbrividire il più accurato storico. È inaccettabile un simile ardore in un libro non di fantasia.
Cominciamo quindi analizzando il sottotitolo: Vita privata e pubblica di Luigi XIV. Un titoletto altisonante per una monografia che in realtà si concentra essenzialmente sulle passioni amorose del protagonista (e sui loro frutti), nonché su pochi e vaghi accenni a fatti storici rilevanti, spesso connessi ai detti amori. Se si fosse intitolato Il Re Sole – le passioni sfrenate di Luigi XIV probabilmente, oltre ad attirare più pubblico, sarebbe stato più calzante. Ciò che salta subito all'occhio (e alla mente) al termine della lettura, è infatti il coinvolgimento di Gerosa nei pettegolezzi, nei gossip. D'altronde ammette lui stesso di non voler trattare approfonditamente certe questioni, come i vari conflitti, avanzando quale giustificazione le troppe battaglie che li caratterizzarono e perché “è un periodo difficile, complesso e faticoso da ripercorrere” (pag. 332). Si limita dunque a ricordare gli scontri principali, accennando ai territori acquisiti o persi, ai movimenti delle truppe, ai trattati di pace con annesse relative conseguenze. Dunque? 494 pagine a parlare di cosa? Sesso, intrighi, tradimenti, figli e figliastri, complotti, morti inspiegabili. Per carità, è comprensibile che una persona scelga secondo le proprie passioni di cosa trattare ma in tal caso, come ho già affermato, non trovo corretto sottotitolare il libro Vita privata e pubblica, se di pubblico c'è ben poco (e qualcuno dirà: “infatti l'ha messo per secondo”).
Ciononostante il problema più grosso è l'invadenza dell'autore. Come ho già accennato, ben visibili e numerosi sono i continui commenti inutili e futili (anche rivolti a storici e memorialisti tra i più eminenti) presenti nel testo, i quali fanno risaltare la personalità dell'autore e contribuiscono a dipingerne un ritratto davvero pessimo, per usare un eufemismo. Oltre alle critiche palesemente razziste, in particolare contro le spagnole (“Luigi [XIII] le rinfaccia questa enormità e Anna, con alterigia tutta spagnola, lo rimbecca” a pag. 29; “Sfoggia la devozione un po' beghina delle spagnole” a pag. 100 e via avanti), che lui giustifica (in modo poco credibile) ripescandole da fonti dell'epoca, è evidente che Gerosa abbia qualche problema principalmente con le donne e con il mondo omosessuale. In entrambi i casi il suo comportamento è ambiguo: per quanto concerne il sesso femminile prima ne elogia la bellezza, il portamento e/o il carisma e subito dopo lo disprezza, lo giudica e lo insulta. Parlando della regina Anna d'Asburgo dice: “senza trucco, riusciva a essere più bella di tante ventenni” - ma subito dopo - “come accade alle belle donne grasse, il volume le donava...”, per concludere con “Vanitosa e civetta per tutta la vita” (pag.55). A Louise De La Vallière (prima amante del Re) dà della patetica (pag. 311); schernisce la giovane Madame de Maintenon (“Faceva la guardia ai tacchini, ma si proteggeva la pelle dal sole con la veletta perché, nonostante tutto, si sentiva una damina”, pag. 356); parlando di Marie-Angélique d'Escorailles de Rouissille-Fontanges (altra amante di Luigi XIV) prima ne decanta la bellezza con termini anche al limite del sessismo (“Aveva i capelli tra il biondo e il rosso, le carni bianche, la bocca finemente disegnata, tratti da bambola e due occhi glauchi e sognanti”) e poi la insulta, definendola “così stupida che nessuna dama riusciva a invidiarla” (pag. 367); infine la principessa Palatina viene definita “linguacciuta e pettegola memorialista” (pag. 389). Ma il fondo, Gerosa lo tocca con la moglie di Luigi XIV, Maria Teresa di Spagna: “a quella sposa ridicola, a quella palla di grasso che discendeva da Carlo V” (pag. 184). Le parole però non sono sue, per quanto non siano virgolettate, bensì di un narratore francese del Novecento, Paul Reboux (nome d'arte di André Armillet). Ma è così che opera l'autore: sembra sentirsi giustificato nell'usare termini tanto irrispettosi, poiché già altri li hanno accennati. Pare avanzi una pretesa: « se li usano loro, perché non posso farlo io? » Una giustificazione alquanto labile e vergognosa.
Ciononostante le donne non sono l'unico bersaglio di Gerosa. Anche gli uomini vengono spesso centrati dai suoi dardi avvelenati, giudicati per la loro stupidità, scarso impegno, ignoranza o - e questo è il suo cavallo di battaglia - per la loro omosessualità. Pare infatti che il mondo “gayo” si manifesti come un'ossessione, una fissa: se un uomo non ha rapporti carnali con una donna allora è omosessuale; se non si circonda di belle ragazze è omosessuale; se ha dei favoriti è omosessuale, benché non abbia rapporti carnali. Inoltre trascrive, reputando come veritieri anche se ammette di trattarsi solo di voci, molti pettegolezzi del passato (altra prova di quanto poco sopra espresso ), riportando insinuazioni calunniose: “suor Céleste, che farà sorgere in Françoise (la Maintenon, n.d.r.) un mal riconosciuto sentimento di grande trasporto per il suo stesso sesso. Un aspetto (…) di cui si è sempre discusso” (pag.356). Discusso, non vuol dire veritiero e/o certo. Ma a Gerosa non interessa che siano chiacchiere da salon; le trascrive perché lo entusiasmano. L'omosessualità per lui diventa quindi un tarlo, al punto da far venire il dubbio al lettore se non fosse omofobo. Il principale indiziato è certamente Luigi XIII, di cui Gerosa analizza la personalità con l'occhio indagatore di una pettegola e su cui sentenzia essere un omosessuale represso (“I suoi amori furono strani, ma più intriganti di quelli (…) rigorosamente eterosessuali di suo figlio”, pag. 27): lo definisce “un diverso già da ragazzo” (pag. 34) solo perché, a causa di alcuni episodi che lo turbarono, odiò le donne; inoltre punta il dito contro i favoriti, che chiama “amanti” o “favoriti sessuali” per distinguerli da quelli politici: “Luynes è stato il favorito sessuale ma anche politico. (…) Il sovrano avrà un solo grandissimo favorito politico, Richelieu, che però non è il suo amante, e accanto a lui campeggia una galassia di favoriti sessuali” (pag. 35). Poi però si smentisce: “Nessuno ha mai documentato l'esistenza di atti d'amore fisico tra Luigi XIII e i suoi favori e favorite” (pag. 38). Gerosa dimentica (troppo spesso nel testo) o più realisticamente non sa, che essere un favorito non voleva dire essere necessariamente l'amante carnale. Eppure, questa sua palesata avversione, viene spezzata ogni tanto da alcune ambigue descrizioni fisiche maschili, al punto da far pensare che forse anche lui faceva parte della cricca (“marchese di Vardes, un biondino delizioso” pag. 273; “Jean Cavalier – un garzone di fornaio molto bello e maschio” pag. 457).
Paradossalmente l'unico gay certo e appurato della Corte di Luigi XIV, suo fratello Filippo d'Orleans, non è degnato che di poche parole e anche quelle sprezzanti: “Filippo d'Orléans (…) amava gli abiti femminili e fu uno dei primi grandi travestiti. (…) Monsieur era un omosessuale, interessato solo a quello che era chiamato « il vizio italiano ». Il suo amante era Armand de Gramont, il conte di Guiche, primogenito del maresciallo di Gramont” (pag. 213). Un libro che si prefigge di essere aulico, non dovrebbe contenere simili bassezze da pettegole. Tuttalpiù che l'autore sbaglia completamente persona: difatti non vi sono prove certe che Gramont fosse l'amante di Monsieur, mentre è fuor dubbio che il suo principale amore fu Filippo di Lorena, noto anche come Il Cavaliere di Lorena (la serie TV Versailles, per quanto orrenda, affronta abbondantemente il tema). Gramont rientrava in quello che oggi definiremmo l'entourage del duca d'Orléans, ossia la combriccola di gentiluomini di cui il fratello del Re si circondava e con cui passava il tempo. Praticamente la versione maschile delle dame da compagnia. Gerosa invece insiste e lo definisce “amante” (così come per i favoriti di Luigi XIII) perché, non essendo preparato, segue un'interpretazione sbagliata del termine mignon.
Tale termine fu infatti utilizzato a partire già dal XV secolo in Francia, per definire i favoriti del sovrano o di un gran nobile (invece era poco utilizzato per le regine e le grandi dame), senza alcuna connotazione negativa: designava solamente le persone che tenevano compagnia o quelle più fidate. La voce cominciò ad avere un'accezione negativa durante il regno di Enrico III (1574-1589), il quale era circondato da coetanei fissati con l'aspetto (quindi sempre eleganti, profumati ecc ...) e pertanto oggetto di scherno da parte del popolo (era una cosa inusuale il gusto per l'igiene e la moda). Lo stesso Enrico fu deriso, in quanto amante dell'eleganza e ciò contribuì ad alimentare una “leggenda nera” distorta sulla sua personalità (totalmente assurda e menzognera, visto il nugolo di amanti avute). Poi come sempre molti scrittori suoi contemporanei, specie quelli avversi, contribuirono a rincarare la dose. Gerosa, stupidamente, si rifà ai suddetti e infatti, menzionando il padre di Richelieu, scrive: « François ottenne cariche importanti alla corte dell'ultimo re Valois, l'effeminato Enrico III ». È evidente, ripeto, il problema che l'autore ha (o meglio, aveva) con il mondo gay e l'omosessualità.
Simili inutili commenti personali rendono il testo poco piacevole alla lettura, se poi ci aggiungessimo anche i diversi errori concettuali e storiografici menzionati in apertura, faremmo jackpot.
Una cosa che mi infastidisce e che ripeto sempre quando “recensisco” un libro, è l'imprecisione quando si espongono riflessioni o argomenti di storia. La giustificazione che la storiografia non sia la principale attività professionale dello scrittore, come qualcuno potrebbe avanzare, è qui davvero insensata. Chiunque parli, scriva, commenti fatti storici deve (obbligatoriamente) essere preciso non solo per rispetto alle cose e/o persone in oggetto, quanto anche perché scrivere di storia significa (inevitabilmente) educare. Gerosa questo non lo mette in atto, dimostrando (lo si è visto) una mancanza di rispetto verso i personaggi coinvolti e la Storia in generale; perfino verso il protagonista. La sua ammirazione per Luigi XIV è fin troppo evidente, eppure anche in questo caso è, a parere personale, contraddittorio. Parlando della macchina dello Stato, Gerosa scrive: “E presto lo vedremo [Luigi, n.d.r.] esaltare la monarchia al di là di ogni immaginazione, trasformandola in una vera dittatura per diritto divino. Luigi, il re-dittatore, interviene in tutto, incarna la potenza assoluta del regno, si identifica con lo Stato e con la Francia, sicché la disciplina ordinata ai francesi non è una coercizione imposta dall'esterno, ma il modello di una sorprendente autodisciplina” (pag. 250). L'autore qui ci confonde: ne elogia la politica, però al tempo stesso lo definisce dittatore (in senso moderno). Le due cose collidono; a meno che Gerosa non provi un'ammirazione per i tiranni. Ciò spiegherebbe perché chiama Hitler “eroe negativo della Storia”: “la dispersione di quel laboratorio d'intelligenza e spiritualità che fu la Port-Royal dei giansenisti basta (…) a farlo [Luigi XIV, n.d.r.] catalogare tra gli eroi negativi della Storia, ad accostarlo più a Hitler che ad Augusto.” (pag. 487).
Oltre a riversare i succitati giudizi e offese verso questo o quel personaggio, Gerosa commette la “leggerezza” di inserire nomi incompleti, affibbiare titoli nobiliari anticipando i tempi, edificare castelli e palazzi prima dell'effettiva realizzazione, nominare Paesi che sulla carta nemmeno esistono. È questo il caso per esempio della Germania, più volte citata come sinonimo per il Sacro Romano Impero (cosa inaccettabile) o della Prussia, la cui nascita viene perfino retrodatata. Inoltre l'autore usa termini impropri e anacronistici come “padrone d'Europa” (pag. 214) e “Realpolitik” (pag. 237); concetti improponibili sia per la mentalità dell'epoca sia per questioni prettamente geopolitiche (il Re Sole non governò così vastamente, come fece invece Napoleone). A ciò si devono poi aggiungere gli strafalcioni dettati dall'ignoranza, quali la nomenclatura “Imperatore d'Austria” (pag. 451 e seguenti) e la più bella di tutte « Valicò le Alpi al Brennero anticipando Annibale e Napoleone » (pag. 451). Un breve e veloce ripasso avrebbe evitato simile frasi imbarazzanti.
L'autore invece non se ne cura e anzi insiste su certi errori, convinto di essere nel giusto e senza la minima esitazione: come per esempio le ripetute volte in cui afferma che Luigi XIV fu incoronato re a quattro anni. Non è cosciente del fatto che un bambino nel Seicento non potesse essere incoronato, sia per una questione di maturità (solitamente veniva dichiarata tale a tredici anni) sia per una questione fisica: a un bimbo di quell'età risulta impossibile indossare una corona e un mantello spesso pesanti. Oppure può anche darsi che sappia queste cose, ma fa orecchie da mercante. E ciò dimostra, oltre all'impreparazione, anche un pizzico di ipocrisia. Parlando di Ercole Antonio Mattioli quale possibile Maschera di Ferro (all'argomento dedica un intero capitolo), scrive: “Era un avventuriero, ma restava pur sempre un diplomatico ed era stato catturato in aperta violazione del diritto internazionale. A queste cose allora si dava peso” (pag. 434). Si dava peso anche alle incoronazioni, cioè cerimonie che segnavano il passaggio di potere dal defunto sovrano all'erede, marcando l'inizio del nuovo regno e di fatto del governo.
Il colpo di grazia alla Storia sono i numerosi e continui riferimenti, nonché insignificanti paragoni, a fatti e personaggi del Novecento. È una tendenza questa assai diffusa, il voler confrontare il passato con il presente, spesso incolpando il primo degli errori del secondo. Gerosa in questo è un maestro. Ho già accennato alla Realpolitik, ma ne potrei enunciare altri: compara l'arresto di un comandante della nobiltà con quello di Mussolini, in maniera a dir poco inappropriata visto che si trattarono di situazioni e motivazioni totalmente differenti (“Luigi XIV si sentì orgoglioso per questa « mossa » che fa pensare all'arresto di Mussolini a Villa Savoia voluto da Vittorio Emanuele III il 25 luglio 1943.” pag.124); fa del sarcasmo canzonando il Re e la Famiglia mentre giocano nel fiume, paragonandoli ai maoisti (“Luigi XIV, il suo istitutore François de Neufville, duca e maresciallo di Villeroy, la regina e le sue dame indossavano camicioni di rozza tela grigia (in stile Cina di Mao)”. Pag. 139); quando tratta di un processo, ecco che riesuma Mani Pulite (“I gentiluomini di Fouquet sconvolti piangono. È una vera scena da Mani Pulite” e ancora “ Maturava in essa [la folla, n.d.r.] una sorta di furore, come nei processi di Mani Pulite”. Pp. 235 e 241); descrive la trasformazione economica attuata da Colbert come se il ministro avesse copiato Mao (“Colbert usava sistemi da rivoluzione culturale cinese”, pag. 257); infine paragona le imprese rivoltose di un popolano del Sei-Settecento con quelle di Che Guevara (“Jean Cavalier – un garzone di fornaio molto bello e maschio, che, nel Settecento, si guadagnò una reputazione europea pari a quella di Che Guevara ai nostri giorni”. Pag.457). Ma le due peggiori Gerosa ce le regala parlando di armi e di persecuzioni:
1) “Il re approvava i suoi massacri, ma, quando il grande chimico italiano Giuseppe Saverio Poli gli rivelerà di essere in grado di fabbricare bombe micidiali (…) lo pregò di tenere segreta la formula e di non farne nulla. Luigi è dunque meglio di Roosevelt, che autorizzò la bomba atomica?” (pag. 347). Come può anche essere solo possibile comparare un ordigno di distruzione di massa, con una bomba la cui carica sarebbe stata comunque infinitamente ridotta? Solo perché entrambi causano molte morti?
2) “La revoca dell'editto di Nantes equivale alle leggi razziali di Hitler e alla fuga degli ebrei nel nostro tempo” (pag. 402). Scusami lettore, ma qui siamo ai limiti della follia!
Anche nel caso in cui chiudessi gli occhi sul contenuto, ci sarebbe comunque la forma e lo schema narrativo a farmi sospirare.
Il testo, o meglio l'autore, risulta ripetitivo quasi allo sfinimento. Gerosa ripete più e più volte gli stessi concetti, le stesse frasi, gli stessi pensieri di vari storici e personaggi; come per esempio Voltaire. Lui stesso lo afferma: « Abbiamo già citato più volte questo giudizio di Voltaire, ma lo ripetiamo ancora » (pag. 480). Ciò che è peggio però non sono le varie ripetizioni (anche nella stessa pagina), quanto l'incapacità di riportare correttamente i titoli delle opere già citate. Prendiamo sempre a modello il filosofo illuminista: Gerosa è un ammiratore del suo capolavoro Il secolo di Luigi XIV (Le siecle de Louis XIV; che poi l'abbia letto o meno, è un altro discorso), eppure non riesce mai a scriverlo correttamente. Tu lettore potrai pensare che sono pesante o pedante e sbaglieresti. Qui non si tratta di pedanteria, ma di scrivere correttamente in italiano e di avere anche rispetto per la cultura. È un po' come se tu ti chiamassi Mario Bianchi e l'impiegato dell'anagrafe sui documenti scrivesse Mario Bianchino o Imbianchino. Non penso saresti contento.
Oltre alle ripetizioni, Gerosa è anche contraddittorio. Anche in questo caso i riscontri sono molteplici: “Il Parlamento, organo composto esclusivamente di magistrati, cerca la legittimazione ...” (pag. 98). “Il compito del Parlamento – duecentoventi magistrati più una quarantina di nobili – è quello di amministrare la giustizia in nome del re” (pag. 99). Ma non erano solo magistrati? In questo caso, inoltre, sbaglia nel parlare di parlamento al singolare perché la Francia (e Parigi) all'epoca ne aveva molti. Gerosa, inoltre, gli affibbia una connotazione troppo moderna del termine. Un altro esempio lo si trova alle pagine 237-238: “Il 10 ottobre 1661 accadde un grave incidente tra Francia e Inghilterra. Sembrava cosa da poco e invece quasi si arrivò alla guerra. A Londra la carrozza (…) [dell'] ambasciatore di Spagna, conquistò a forza la precedenza su quella (…) [dell'] ambasciatore della Francia. Nello scontro che ne seguì (…), gli staffieri dello spagnolo ruppero le stanghe della carrozza del francese, tagliarono i garretti dei suoi cavalli e uccisero il suo postiglione. (…) Tutti temevano che, a causa dell'incidente di Londra, scoppiasse la guerra tra Francia e Spagna”.
Naturalmente, tutti possono confondersi, ma non sulle date di nascita e morte! “Louise [De la La Vallière, n.d.r.] nascose gelosamente la sua gravidanza fino al 18 dicembre 1663, quando, di nascosto, dette alla luce il bambino. Colbert (…) fece annotare dal curato il battesimo di un piccolo « Charles » (…). Sei giorni dopo la nascita del bimbo, che morirà a tre anni nel 1666...” (pag. 272). Qualche pagina dopo: “Il piccolo Philippe (…) morì prima di aver compiuto l'anno, come il fratello Charles” (pag. 276). Non c'è stato nessuno scambio di identità e non ci furono due infanti di nome Carlo; questa non è confusione, è proprio disattenzione!
Gerosa dimostra segni di smarrimento anche quando parla dell'esecutivo, contraddicendosi a distanza di pochi paragrafi (“Louvois sostituì nel consiglio Lionne, morto nel 1671 (…). Simone Arnauld, marchese di Pomponne segretario di Stato agli Esteri (…), successe a Lionne quando quest'ultimo morì, il 1 settembre 1671”; pag. 333), o quando si sofferma sulla politica estera del Re Sole (“Luigi dominava anche la politica estera (…). Soltanto dopo il 1690 i suoi errori si fecero sentire e cominciò la grande crisi, ma fino all'inizio del nuovo secolo, e in pratica per il resto della sua vita, una serie di guerre fortunate e di audaci aggressioni stabilirono la supremazia del suo esercito e il primato della sua nazione”, pag. 398. Nelle pagine precedenti ha dimostrato il contrario). La chicca però riguarda la descrizione della morte del ministro Louvois: “Vacillando, Louvois percorse la Galleria degli Specchi (…). « Soffoco » rantolò. Si appoggiò pesantemente al braccio del fido Léon Bouthillier (…) e raggiunse la sua stanza (…). Qui crollò pesantemente nelle braccia dei segretari, che chiamarono il medico. (…) Quando arrivò il dottore, il ministro era già spirato” (pag. 419). Il figlio, però, dà una versione diversa: “È morto in un baleno. Poco prima si era lamentato di avere un peso allo stomaco che lo opprimeva. Gli fecero un salasso al braccio sinistro, si sentì meglio e pregò che glielo facessero anche al destro. Ma il medico rifiutò (…). Fagon, il medico personale del re, cercava di farsi un quadro della situazione e chiese al malato che sintomi provasse. Dal letto Louvois balbettò che si sentiva soffocare. La testa gli ricadde sulle spalle e fu l'ultimo momento della sua vita” (pag. 420). O il figlio del ministro riportò una bugia, oppure Gerosa è riuscito a contraddirsi e a farsi confutare dalle fonti che lui stesso cita.
Però d'accordo. Facciamo finta, per un momento, che le varie ripetizioni e contraddizioni non esistano. Rimane la struttura del libro ad affossarlo.
Come ho già avuto modo di dire, Gerosa fa un uso smodato di citazioni, aforismi, copia interi brani da testi dell'epoca e da fonti successive dell'Otto-Novecento. È sempre ammirevole quando si citano fonti di prima mano e difatti, questo è il suo unico pregio assieme al politically correct: non menziona solo adulatori del Re Sole ma anche i detrattori, riportando quindi la doppia versione. Il problema è che mancano i riferimenti. Non troverai, lettore, nemmeno una singola nota a piè pagina che ti rimandi alla fonte citata, né un'elencazione dettagliata alla fine del testo. Un grave errore in un oceano di inesattezze. Senza le note, come fa il lettore interessato a cercare l'opera e ad analizzarla? Ma ovvio! Si rifà sulla bibliografia.
Giusto poche righe fa ho scritto che non c'è un elencazione dettagliata. Mi contraddico? No. Una bibliografia in appendice c'è, per quanto selettiva. Tuttavia è scritta male, poco schematica, con una confusione tra opere presenti nel testo e altre suggerite a scopo informativo, come lo stesso autore afferma:
“Vi si troveranno le biografie, le memorie e le opere più importanti sul Re Sole e sul suo regno, ma sopratutto quelle che sono state preziose per la stesura di questo lavoro” (pag. 495). Però, come ho detto, non le suddivide e pertanto risulta difficile trovare nell'elenco l'opera di una particolare citazione o anche semplicemente un testo utilizzato come fonte. Per di più, per dare un senso anche educativo, afferma che l'elenco delle fonti del Seicento è sterminato e cita altri nomi oltre a quelli già fatti, però « senza le specificazioni che richiederebbe una bibliografia specialistica »; ma allora che senso ha parlarne? Se non si citano bene le fonti, non ha scopo scriverle; tranne quello di fare innervosire il lettore che deve andarsi a cercare da solo il titolo delle opere (e non è sempre facile). Un minimo lo si può intuire dalle varie menzioni nel testo dei nomi dei memorialisti dell'epoca (non dei titoli), però non è così che va scritta una bibliografia, né tantomeno è così che si riportano le citazioni. Su questo Gerosa è ampiamente confusionario.
Riassumendo, è un libro da consigliare? No, certamente no. Dai commenti inopportuni dell'autore agli errori storiografici, dagli insulti alla mancanza di una struttura chiara e nitida, questo libro è un fiasco. Certo, si potrebbe ribattere che, avendo avuto molte ristampe, tanto male non sembrerebbe; tuttavia sarebbe da stolti giudicare il successo di un libro solo dalla quantità di riedizioni avute. Molti pessimi libri vengono ripubblicati.
Anche il giudizio sull'autore è totalmente negativo. Dalla lettura è parso un sessista, razzista, omofobo, ignorante (nel vero senso del termine, cioè di colui che ignora), un tantino pusillanime (lancia giudizi, comprovati dal pensiero di alcuni storici, però non ne spiega le ragioni); irrispettoso nei confronti dei memorialisti e di storici ben più preparati di lui, spesso avversi al suo beniamino (schernisce il biografo/memorialista André Castelot definendolo pietoso, attacca Michelet e Lavisse, dà del pettegolo al gazetier e poeta Tallemant de Réaux). Risulta un naïve, un ingenuo che crede (o vuole credere) alle leggende e alle dicerie senza verificarle, ma è anche un opportunista che considera le circostanze e il contesto solo quando gli fa comodo: mentre descrive con toni seriosi le accuse alla regina Anna per un ipotetico complotto ai danni del marito, nel trattare l'Affare dei veleni prende per oro colato le dichiarazioni sotto tortura, senza metterle in dubbio e senza ricordarsi che un torturato direbbe qualsiasi cosa pur di far cessare il supplizio.
Inoltre la sua cieca ammirazione per il Re Sole lo porta a ingigantire e a esagerare i suoi risultati, positivi o negativi che siano. Perciò da una guerra contro pochi Stati, ecco che improvvisamente Luigi si trova da solo a combattere contro tutta l'Europa, come un nano contro dei giganti (“Si ripeté il copione della guerra della Lega di Augusta: la Francia sola contro l'Europa tutta. La sfida di Luigi portò alla Grande Alleanza del 1701: una fortissima coalizione contro la Francia, stretta tra la cattolica Austria e le nazioni marittime protestanti: Inghilterra e Olanda.” pag. 444); mentre in campo culturale la Francia, grazie a Luigi, diventa la prima Nazione surclassando l'Italia, cosa per altro non veritiera: “Non guardava in faccia a nessuno, neppure a Bernini, e in questo modo dette il segno che non era più l'Italia a dominare il gusto nell'arte e che la Francia l'aveva sostituita” (pag. 398). Solo per aver rifiutato un grande artista, il Re Sole diventa il padrone dell'arte europea. Niente di più patetico.
Gli argomenti poi mancano di dettagli, nonché di riferimenti. O meglio, bisogna precisare: i dettagli ci sono, ma come ho già detto (mille volte) solo per quei fatti che interessano all'autore. Non vi è quindi unanimità. Per quanto riguarda i riferimenti, il problema è stato già trattato. Aggiungo solo che Gerosa introduce spesso diagnosi mediche che sviolina in relazione a vari personaggi (specialmente ai membri della famiglia reale), con una terminologia attuale. Tralasciando il linguaggio odierno, che rende più comprensibile (per quanto possibile) l'argomento, l'autore manca comunque di inserire in nota le fonti da cui trae simili congetture (o di spiegare se sono frutto della propria mente), facendole risultare campate in aria e quindi poco credibili.
Sconsiglio dunque vivamente la lettura di questo tomo.
Alla prossima.
PS: Nel caso volessi leggere un tomo, dettagliato e con una bibliografia esauriente, ti rimando a Napoleone il Grande di Andrew Roberts.
Tralasciando gli evidenti e imbarazzanti errori grammaticali e ortografici (ce ne sono un'infinità, da farsi un due domande sulle reali conoscenze dell'autore), le principali note negative di questo testo sono due: i commenti (negativi) e il trasporto dello scrittore verso i personaggi menzionati; lo schema narrativo e la sua impostazione.
Una cosa appare subito chiara: Gerosa non si esimia dall'inserire commenti personali inopportuni, che farebbero rabbrividire il più accurato storico. È inaccettabile un simile ardore in un libro non di fantasia.
Cominciamo quindi analizzando il sottotitolo: Vita privata e pubblica di Luigi XIV. Un titoletto altisonante per una monografia che in realtà si concentra essenzialmente sulle passioni amorose del protagonista (e sui loro frutti), nonché su pochi e vaghi accenni a fatti storici rilevanti, spesso connessi ai detti amori. Se si fosse intitolato Il Re Sole – le passioni sfrenate di Luigi XIV probabilmente, oltre ad attirare più pubblico, sarebbe stato più calzante. Ciò che salta subito all'occhio (e alla mente) al termine della lettura, è infatti il coinvolgimento di Gerosa nei pettegolezzi, nei gossip. D'altronde ammette lui stesso di non voler trattare approfonditamente certe questioni, come i vari conflitti, avanzando quale giustificazione le troppe battaglie che li caratterizzarono e perché “è un periodo difficile, complesso e faticoso da ripercorrere” (pag. 332). Si limita dunque a ricordare gli scontri principali, accennando ai territori acquisiti o persi, ai movimenti delle truppe, ai trattati di pace con annesse relative conseguenze. Dunque? 494 pagine a parlare di cosa? Sesso, intrighi, tradimenti, figli e figliastri, complotti, morti inspiegabili. Per carità, è comprensibile che una persona scelga secondo le proprie passioni di cosa trattare ma in tal caso, come ho già affermato, non trovo corretto sottotitolare il libro Vita privata e pubblica, se di pubblico c'è ben poco (e qualcuno dirà: “infatti l'ha messo per secondo”).
Ciononostante il problema più grosso è l'invadenza dell'autore. Come ho già accennato, ben visibili e numerosi sono i continui commenti inutili e futili (anche rivolti a storici e memorialisti tra i più eminenti) presenti nel testo, i quali fanno risaltare la personalità dell'autore e contribuiscono a dipingerne un ritratto davvero pessimo, per usare un eufemismo. Oltre alle critiche palesemente razziste, in particolare contro le spagnole (“Luigi [XIII] le rinfaccia questa enormità e Anna, con alterigia tutta spagnola, lo rimbecca” a pag. 29; “Sfoggia la devozione un po' beghina delle spagnole” a pag. 100 e via avanti), che lui giustifica (in modo poco credibile) ripescandole da fonti dell'epoca, è evidente che Gerosa abbia qualche problema principalmente con le donne e con il mondo omosessuale. In entrambi i casi il suo comportamento è ambiguo: per quanto concerne il sesso femminile prima ne elogia la bellezza, il portamento e/o il carisma e subito dopo lo disprezza, lo giudica e lo insulta. Parlando della regina Anna d'Asburgo dice: “senza trucco, riusciva a essere più bella di tante ventenni” - ma subito dopo - “come accade alle belle donne grasse, il volume le donava...”, per concludere con “Vanitosa e civetta per tutta la vita” (pag.55). A Louise De La Vallière (prima amante del Re) dà della patetica (pag. 311); schernisce la giovane Madame de Maintenon (“Faceva la guardia ai tacchini, ma si proteggeva la pelle dal sole con la veletta perché, nonostante tutto, si sentiva una damina”, pag. 356); parlando di Marie-Angélique d'Escorailles de Rouissille-Fontanges (altra amante di Luigi XIV) prima ne decanta la bellezza con termini anche al limite del sessismo (“Aveva i capelli tra il biondo e il rosso, le carni bianche, la bocca finemente disegnata, tratti da bambola e due occhi glauchi e sognanti”) e poi la insulta, definendola “così stupida che nessuna dama riusciva a invidiarla” (pag. 367); infine la principessa Palatina viene definita “linguacciuta e pettegola memorialista” (pag. 389). Ma il fondo, Gerosa lo tocca con la moglie di Luigi XIV, Maria Teresa di Spagna: “a quella sposa ridicola, a quella palla di grasso che discendeva da Carlo V” (pag. 184). Le parole però non sono sue, per quanto non siano virgolettate, bensì di un narratore francese del Novecento, Paul Reboux (nome d'arte di André Armillet). Ma è così che opera l'autore: sembra sentirsi giustificato nell'usare termini tanto irrispettosi, poiché già altri li hanno accennati. Pare avanzi una pretesa: « se li usano loro, perché non posso farlo io? » Una giustificazione alquanto labile e vergognosa.
Ciononostante le donne non sono l'unico bersaglio di Gerosa. Anche gli uomini vengono spesso centrati dai suoi dardi avvelenati, giudicati per la loro stupidità, scarso impegno, ignoranza o - e questo è il suo cavallo di battaglia - per la loro omosessualità. Pare infatti che il mondo “gayo” si manifesti come un'ossessione, una fissa: se un uomo non ha rapporti carnali con una donna allora è omosessuale; se non si circonda di belle ragazze è omosessuale; se ha dei favoriti è omosessuale, benché non abbia rapporti carnali. Inoltre trascrive, reputando come veritieri anche se ammette di trattarsi solo di voci, molti pettegolezzi del passato (altra prova di quanto poco sopra espresso ), riportando insinuazioni calunniose: “suor Céleste, che farà sorgere in Françoise (la Maintenon, n.d.r.) un mal riconosciuto sentimento di grande trasporto per il suo stesso sesso. Un aspetto (…) di cui si è sempre discusso” (pag.356). Discusso, non vuol dire veritiero e/o certo. Ma a Gerosa non interessa che siano chiacchiere da salon; le trascrive perché lo entusiasmano. L'omosessualità per lui diventa quindi un tarlo, al punto da far venire il dubbio al lettore se non fosse omofobo. Il principale indiziato è certamente Luigi XIII, di cui Gerosa analizza la personalità con l'occhio indagatore di una pettegola e su cui sentenzia essere un omosessuale represso (“I suoi amori furono strani, ma più intriganti di quelli (…) rigorosamente eterosessuali di suo figlio”, pag. 27): lo definisce “un diverso già da ragazzo” (pag. 34) solo perché, a causa di alcuni episodi che lo turbarono, odiò le donne; inoltre punta il dito contro i favoriti, che chiama “amanti” o “favoriti sessuali” per distinguerli da quelli politici: “Luynes è stato il favorito sessuale ma anche politico. (…) Il sovrano avrà un solo grandissimo favorito politico, Richelieu, che però non è il suo amante, e accanto a lui campeggia una galassia di favoriti sessuali” (pag. 35). Poi però si smentisce: “Nessuno ha mai documentato l'esistenza di atti d'amore fisico tra Luigi XIII e i suoi favori e favorite” (pag. 38). Gerosa dimentica (troppo spesso nel testo) o più realisticamente non sa, che essere un favorito non voleva dire essere necessariamente l'amante carnale. Eppure, questa sua palesata avversione, viene spezzata ogni tanto da alcune ambigue descrizioni fisiche maschili, al punto da far pensare che forse anche lui faceva parte della cricca (“marchese di Vardes, un biondino delizioso” pag. 273; “Jean Cavalier – un garzone di fornaio molto bello e maschio” pag. 457).
Paradossalmente l'unico gay certo e appurato della Corte di Luigi XIV, suo fratello Filippo d'Orleans, non è degnato che di poche parole e anche quelle sprezzanti: “Filippo d'Orléans (…) amava gli abiti femminili e fu uno dei primi grandi travestiti. (…) Monsieur era un omosessuale, interessato solo a quello che era chiamato « il vizio italiano ». Il suo amante era Armand de Gramont, il conte di Guiche, primogenito del maresciallo di Gramont” (pag. 213). Un libro che si prefigge di essere aulico, non dovrebbe contenere simili bassezze da pettegole. Tuttalpiù che l'autore sbaglia completamente persona: difatti non vi sono prove certe che Gramont fosse l'amante di Monsieur, mentre è fuor dubbio che il suo principale amore fu Filippo di Lorena, noto anche come Il Cavaliere di Lorena (la serie TV Versailles, per quanto orrenda, affronta abbondantemente il tema). Gramont rientrava in quello che oggi definiremmo l'entourage del duca d'Orléans, ossia la combriccola di gentiluomini di cui il fratello del Re si circondava e con cui passava il tempo. Praticamente la versione maschile delle dame da compagnia. Gerosa invece insiste e lo definisce “amante” (così come per i favoriti di Luigi XIII) perché, non essendo preparato, segue un'interpretazione sbagliata del termine mignon.
Tale termine fu infatti utilizzato a partire già dal XV secolo in Francia, per definire i favoriti del sovrano o di un gran nobile (invece era poco utilizzato per le regine e le grandi dame), senza alcuna connotazione negativa: designava solamente le persone che tenevano compagnia o quelle più fidate. La voce cominciò ad avere un'accezione negativa durante il regno di Enrico III (1574-1589), il quale era circondato da coetanei fissati con l'aspetto (quindi sempre eleganti, profumati ecc ...) e pertanto oggetto di scherno da parte del popolo (era una cosa inusuale il gusto per l'igiene e la moda). Lo stesso Enrico fu deriso, in quanto amante dell'eleganza e ciò contribuì ad alimentare una “leggenda nera” distorta sulla sua personalità (totalmente assurda e menzognera, visto il nugolo di amanti avute). Poi come sempre molti scrittori suoi contemporanei, specie quelli avversi, contribuirono a rincarare la dose. Gerosa, stupidamente, si rifà ai suddetti e infatti, menzionando il padre di Richelieu, scrive: « François ottenne cariche importanti alla corte dell'ultimo re Valois, l'effeminato Enrico III ». È evidente, ripeto, il problema che l'autore ha (o meglio, aveva) con il mondo gay e l'omosessualità.
Simili inutili commenti personali rendono il testo poco piacevole alla lettura, se poi ci aggiungessimo anche i diversi errori concettuali e storiografici menzionati in apertura, faremmo jackpot.
Una cosa che mi infastidisce e che ripeto sempre quando “recensisco” un libro, è l'imprecisione quando si espongono riflessioni o argomenti di storia. La giustificazione che la storiografia non sia la principale attività professionale dello scrittore, come qualcuno potrebbe avanzare, è qui davvero insensata. Chiunque parli, scriva, commenti fatti storici deve (obbligatoriamente) essere preciso non solo per rispetto alle cose e/o persone in oggetto, quanto anche perché scrivere di storia significa (inevitabilmente) educare. Gerosa questo non lo mette in atto, dimostrando (lo si è visto) una mancanza di rispetto verso i personaggi coinvolti e la Storia in generale; perfino verso il protagonista. La sua ammirazione per Luigi XIV è fin troppo evidente, eppure anche in questo caso è, a parere personale, contraddittorio. Parlando della macchina dello Stato, Gerosa scrive: “E presto lo vedremo [Luigi, n.d.r.] esaltare la monarchia al di là di ogni immaginazione, trasformandola in una vera dittatura per diritto divino. Luigi, il re-dittatore, interviene in tutto, incarna la potenza assoluta del regno, si identifica con lo Stato e con la Francia, sicché la disciplina ordinata ai francesi non è una coercizione imposta dall'esterno, ma il modello di una sorprendente autodisciplina” (pag. 250). L'autore qui ci confonde: ne elogia la politica, però al tempo stesso lo definisce dittatore (in senso moderno). Le due cose collidono; a meno che Gerosa non provi un'ammirazione per i tiranni. Ciò spiegherebbe perché chiama Hitler “eroe negativo della Storia”: “la dispersione di quel laboratorio d'intelligenza e spiritualità che fu la Port-Royal dei giansenisti basta (…) a farlo [Luigi XIV, n.d.r.] catalogare tra gli eroi negativi della Storia, ad accostarlo più a Hitler che ad Augusto.” (pag. 487).
Oltre a riversare i succitati giudizi e offese verso questo o quel personaggio, Gerosa commette la “leggerezza” di inserire nomi incompleti, affibbiare titoli nobiliari anticipando i tempi, edificare castelli e palazzi prima dell'effettiva realizzazione, nominare Paesi che sulla carta nemmeno esistono. È questo il caso per esempio della Germania, più volte citata come sinonimo per il Sacro Romano Impero (cosa inaccettabile) o della Prussia, la cui nascita viene perfino retrodatata. Inoltre l'autore usa termini impropri e anacronistici come “padrone d'Europa” (pag. 214) e “Realpolitik” (pag. 237); concetti improponibili sia per la mentalità dell'epoca sia per questioni prettamente geopolitiche (il Re Sole non governò così vastamente, come fece invece Napoleone). A ciò si devono poi aggiungere gli strafalcioni dettati dall'ignoranza, quali la nomenclatura “Imperatore d'Austria” (pag. 451 e seguenti) e la più bella di tutte « Valicò le Alpi al Brennero anticipando Annibale e Napoleone » (pag. 451). Un breve e veloce ripasso avrebbe evitato simile frasi imbarazzanti.
L'autore invece non se ne cura e anzi insiste su certi errori, convinto di essere nel giusto e senza la minima esitazione: come per esempio le ripetute volte in cui afferma che Luigi XIV fu incoronato re a quattro anni. Non è cosciente del fatto che un bambino nel Seicento non potesse essere incoronato, sia per una questione di maturità (solitamente veniva dichiarata tale a tredici anni) sia per una questione fisica: a un bimbo di quell'età risulta impossibile indossare una corona e un mantello spesso pesanti. Oppure può anche darsi che sappia queste cose, ma fa orecchie da mercante. E ciò dimostra, oltre all'impreparazione, anche un pizzico di ipocrisia. Parlando di Ercole Antonio Mattioli quale possibile Maschera di Ferro (all'argomento dedica un intero capitolo), scrive: “Era un avventuriero, ma restava pur sempre un diplomatico ed era stato catturato in aperta violazione del diritto internazionale. A queste cose allora si dava peso” (pag. 434). Si dava peso anche alle incoronazioni, cioè cerimonie che segnavano il passaggio di potere dal defunto sovrano all'erede, marcando l'inizio del nuovo regno e di fatto del governo.
Il colpo di grazia alla Storia sono i numerosi e continui riferimenti, nonché insignificanti paragoni, a fatti e personaggi del Novecento. È una tendenza questa assai diffusa, il voler confrontare il passato con il presente, spesso incolpando il primo degli errori del secondo. Gerosa in questo è un maestro. Ho già accennato alla Realpolitik, ma ne potrei enunciare altri: compara l'arresto di un comandante della nobiltà con quello di Mussolini, in maniera a dir poco inappropriata visto che si trattarono di situazioni e motivazioni totalmente differenti (“Luigi XIV si sentì orgoglioso per questa « mossa » che fa pensare all'arresto di Mussolini a Villa Savoia voluto da Vittorio Emanuele III il 25 luglio 1943.” pag.124); fa del sarcasmo canzonando il Re e la Famiglia mentre giocano nel fiume, paragonandoli ai maoisti (“Luigi XIV, il suo istitutore François de Neufville, duca e maresciallo di Villeroy, la regina e le sue dame indossavano camicioni di rozza tela grigia (in stile Cina di Mao)”. Pag. 139); quando tratta di un processo, ecco che riesuma Mani Pulite (“I gentiluomini di Fouquet sconvolti piangono. È una vera scena da Mani Pulite” e ancora “ Maturava in essa [la folla, n.d.r.] una sorta di furore, come nei processi di Mani Pulite”. Pp. 235 e 241); descrive la trasformazione economica attuata da Colbert come se il ministro avesse copiato Mao (“Colbert usava sistemi da rivoluzione culturale cinese”, pag. 257); infine paragona le imprese rivoltose di un popolano del Sei-Settecento con quelle di Che Guevara (“Jean Cavalier – un garzone di fornaio molto bello e maschio, che, nel Settecento, si guadagnò una reputazione europea pari a quella di Che Guevara ai nostri giorni”. Pag.457). Ma le due peggiori Gerosa ce le regala parlando di armi e di persecuzioni:
1) “Il re approvava i suoi massacri, ma, quando il grande chimico italiano Giuseppe Saverio Poli gli rivelerà di essere in grado di fabbricare bombe micidiali (…) lo pregò di tenere segreta la formula e di non farne nulla. Luigi è dunque meglio di Roosevelt, che autorizzò la bomba atomica?” (pag. 347). Come può anche essere solo possibile comparare un ordigno di distruzione di massa, con una bomba la cui carica sarebbe stata comunque infinitamente ridotta? Solo perché entrambi causano molte morti?
2) “La revoca dell'editto di Nantes equivale alle leggi razziali di Hitler e alla fuga degli ebrei nel nostro tempo” (pag. 402). Scusami lettore, ma qui siamo ai limiti della follia!
Anche nel caso in cui chiudessi gli occhi sul contenuto, ci sarebbe comunque la forma e lo schema narrativo a farmi sospirare.
Il testo, o meglio l'autore, risulta ripetitivo quasi allo sfinimento. Gerosa ripete più e più volte gli stessi concetti, le stesse frasi, gli stessi pensieri di vari storici e personaggi; come per esempio Voltaire. Lui stesso lo afferma: « Abbiamo già citato più volte questo giudizio di Voltaire, ma lo ripetiamo ancora » (pag. 480). Ciò che è peggio però non sono le varie ripetizioni (anche nella stessa pagina), quanto l'incapacità di riportare correttamente i titoli delle opere già citate. Prendiamo sempre a modello il filosofo illuminista: Gerosa è un ammiratore del suo capolavoro Il secolo di Luigi XIV (Le siecle de Louis XIV; che poi l'abbia letto o meno, è un altro discorso), eppure non riesce mai a scriverlo correttamente. Tu lettore potrai pensare che sono pesante o pedante e sbaglieresti. Qui non si tratta di pedanteria, ma di scrivere correttamente in italiano e di avere anche rispetto per la cultura. È un po' come se tu ti chiamassi Mario Bianchi e l'impiegato dell'anagrafe sui documenti scrivesse Mario Bianchino o Imbianchino. Non penso saresti contento.
Oltre alle ripetizioni, Gerosa è anche contraddittorio. Anche in questo caso i riscontri sono molteplici: “Il Parlamento, organo composto esclusivamente di magistrati, cerca la legittimazione ...” (pag. 98). “Il compito del Parlamento – duecentoventi magistrati più una quarantina di nobili – è quello di amministrare la giustizia in nome del re” (pag. 99). Ma non erano solo magistrati? In questo caso, inoltre, sbaglia nel parlare di parlamento al singolare perché la Francia (e Parigi) all'epoca ne aveva molti. Gerosa, inoltre, gli affibbia una connotazione troppo moderna del termine. Un altro esempio lo si trova alle pagine 237-238: “Il 10 ottobre 1661 accadde un grave incidente tra Francia e Inghilterra. Sembrava cosa da poco e invece quasi si arrivò alla guerra. A Londra la carrozza (…) [dell'] ambasciatore di Spagna, conquistò a forza la precedenza su quella (…) [dell'] ambasciatore della Francia. Nello scontro che ne seguì (…), gli staffieri dello spagnolo ruppero le stanghe della carrozza del francese, tagliarono i garretti dei suoi cavalli e uccisero il suo postiglione. (…) Tutti temevano che, a causa dell'incidente di Londra, scoppiasse la guerra tra Francia e Spagna”.
Naturalmente, tutti possono confondersi, ma non sulle date di nascita e morte! “Louise [De la La Vallière, n.d.r.] nascose gelosamente la sua gravidanza fino al 18 dicembre 1663, quando, di nascosto, dette alla luce il bambino. Colbert (…) fece annotare dal curato il battesimo di un piccolo « Charles » (…). Sei giorni dopo la nascita del bimbo, che morirà a tre anni nel 1666...” (pag. 272). Qualche pagina dopo: “Il piccolo Philippe (…) morì prima di aver compiuto l'anno, come il fratello Charles” (pag. 276). Non c'è stato nessuno scambio di identità e non ci furono due infanti di nome Carlo; questa non è confusione, è proprio disattenzione!
Gerosa dimostra segni di smarrimento anche quando parla dell'esecutivo, contraddicendosi a distanza di pochi paragrafi (“Louvois sostituì nel consiglio Lionne, morto nel 1671 (…). Simone Arnauld, marchese di Pomponne segretario di Stato agli Esteri (…), successe a Lionne quando quest'ultimo morì, il 1 settembre 1671”; pag. 333), o quando si sofferma sulla politica estera del Re Sole (“Luigi dominava anche la politica estera (…). Soltanto dopo il 1690 i suoi errori si fecero sentire e cominciò la grande crisi, ma fino all'inizio del nuovo secolo, e in pratica per il resto della sua vita, una serie di guerre fortunate e di audaci aggressioni stabilirono la supremazia del suo esercito e il primato della sua nazione”, pag. 398. Nelle pagine precedenti ha dimostrato il contrario). La chicca però riguarda la descrizione della morte del ministro Louvois: “Vacillando, Louvois percorse la Galleria degli Specchi (…). « Soffoco » rantolò. Si appoggiò pesantemente al braccio del fido Léon Bouthillier (…) e raggiunse la sua stanza (…). Qui crollò pesantemente nelle braccia dei segretari, che chiamarono il medico. (…) Quando arrivò il dottore, il ministro era già spirato” (pag. 419). Il figlio, però, dà una versione diversa: “È morto in un baleno. Poco prima si era lamentato di avere un peso allo stomaco che lo opprimeva. Gli fecero un salasso al braccio sinistro, si sentì meglio e pregò che glielo facessero anche al destro. Ma il medico rifiutò (…). Fagon, il medico personale del re, cercava di farsi un quadro della situazione e chiese al malato che sintomi provasse. Dal letto Louvois balbettò che si sentiva soffocare. La testa gli ricadde sulle spalle e fu l'ultimo momento della sua vita” (pag. 420). O il figlio del ministro riportò una bugia, oppure Gerosa è riuscito a contraddirsi e a farsi confutare dalle fonti che lui stesso cita.
Però d'accordo. Facciamo finta, per un momento, che le varie ripetizioni e contraddizioni non esistano. Rimane la struttura del libro ad affossarlo.
Come ho già avuto modo di dire, Gerosa fa un uso smodato di citazioni, aforismi, copia interi brani da testi dell'epoca e da fonti successive dell'Otto-Novecento. È sempre ammirevole quando si citano fonti di prima mano e difatti, questo è il suo unico pregio assieme al politically correct: non menziona solo adulatori del Re Sole ma anche i detrattori, riportando quindi la doppia versione. Il problema è che mancano i riferimenti. Non troverai, lettore, nemmeno una singola nota a piè pagina che ti rimandi alla fonte citata, né un'elencazione dettagliata alla fine del testo. Un grave errore in un oceano di inesattezze. Senza le note, come fa il lettore interessato a cercare l'opera e ad analizzarla? Ma ovvio! Si rifà sulla bibliografia.
Giusto poche righe fa ho scritto che non c'è un elencazione dettagliata. Mi contraddico? No. Una bibliografia in appendice c'è, per quanto selettiva. Tuttavia è scritta male, poco schematica, con una confusione tra opere presenti nel testo e altre suggerite a scopo informativo, come lo stesso autore afferma:
“Vi si troveranno le biografie, le memorie e le opere più importanti sul Re Sole e sul suo regno, ma sopratutto quelle che sono state preziose per la stesura di questo lavoro” (pag. 495). Però, come ho detto, non le suddivide e pertanto risulta difficile trovare nell'elenco l'opera di una particolare citazione o anche semplicemente un testo utilizzato come fonte. Per di più, per dare un senso anche educativo, afferma che l'elenco delle fonti del Seicento è sterminato e cita altri nomi oltre a quelli già fatti, però « senza le specificazioni che richiederebbe una bibliografia specialistica »; ma allora che senso ha parlarne? Se non si citano bene le fonti, non ha scopo scriverle; tranne quello di fare innervosire il lettore che deve andarsi a cercare da solo il titolo delle opere (e non è sempre facile). Un minimo lo si può intuire dalle varie menzioni nel testo dei nomi dei memorialisti dell'epoca (non dei titoli), però non è così che va scritta una bibliografia, né tantomeno è così che si riportano le citazioni. Su questo Gerosa è ampiamente confusionario.
Riassumendo, è un libro da consigliare? No, certamente no. Dai commenti inopportuni dell'autore agli errori storiografici, dagli insulti alla mancanza di una struttura chiara e nitida, questo libro è un fiasco. Certo, si potrebbe ribattere che, avendo avuto molte ristampe, tanto male non sembrerebbe; tuttavia sarebbe da stolti giudicare il successo di un libro solo dalla quantità di riedizioni avute. Molti pessimi libri vengono ripubblicati.
Anche il giudizio sull'autore è totalmente negativo. Dalla lettura è parso un sessista, razzista, omofobo, ignorante (nel vero senso del termine, cioè di colui che ignora), un tantino pusillanime (lancia giudizi, comprovati dal pensiero di alcuni storici, però non ne spiega le ragioni); irrispettoso nei confronti dei memorialisti e di storici ben più preparati di lui, spesso avversi al suo beniamino (schernisce il biografo/memorialista André Castelot definendolo pietoso, attacca Michelet e Lavisse, dà del pettegolo al gazetier e poeta Tallemant de Réaux). Risulta un naïve, un ingenuo che crede (o vuole credere) alle leggende e alle dicerie senza verificarle, ma è anche un opportunista che considera le circostanze e il contesto solo quando gli fa comodo: mentre descrive con toni seriosi le accuse alla regina Anna per un ipotetico complotto ai danni del marito, nel trattare l'Affare dei veleni prende per oro colato le dichiarazioni sotto tortura, senza metterle in dubbio e senza ricordarsi che un torturato direbbe qualsiasi cosa pur di far cessare il supplizio.
Inoltre la sua cieca ammirazione per il Re Sole lo porta a ingigantire e a esagerare i suoi risultati, positivi o negativi che siano. Perciò da una guerra contro pochi Stati, ecco che improvvisamente Luigi si trova da solo a combattere contro tutta l'Europa, come un nano contro dei giganti (“Si ripeté il copione della guerra della Lega di Augusta: la Francia sola contro l'Europa tutta. La sfida di Luigi portò alla Grande Alleanza del 1701: una fortissima coalizione contro la Francia, stretta tra la cattolica Austria e le nazioni marittime protestanti: Inghilterra e Olanda.” pag. 444); mentre in campo culturale la Francia, grazie a Luigi, diventa la prima Nazione surclassando l'Italia, cosa per altro non veritiera: “Non guardava in faccia a nessuno, neppure a Bernini, e in questo modo dette il segno che non era più l'Italia a dominare il gusto nell'arte e che la Francia l'aveva sostituita” (pag. 398). Solo per aver rifiutato un grande artista, il Re Sole diventa il padrone dell'arte europea. Niente di più patetico.
Gli argomenti poi mancano di dettagli, nonché di riferimenti. O meglio, bisogna precisare: i dettagli ci sono, ma come ho già detto (mille volte) solo per quei fatti che interessano all'autore. Non vi è quindi unanimità. Per quanto riguarda i riferimenti, il problema è stato già trattato. Aggiungo solo che Gerosa introduce spesso diagnosi mediche che sviolina in relazione a vari personaggi (specialmente ai membri della famiglia reale), con una terminologia attuale. Tralasciando il linguaggio odierno, che rende più comprensibile (per quanto possibile) l'argomento, l'autore manca comunque di inserire in nota le fonti da cui trae simili congetture (o di spiegare se sono frutto della propria mente), facendole risultare campate in aria e quindi poco credibili.
Sconsiglio dunque vivamente la lettura di questo tomo.
Alla prossima.
PS: Nel caso volessi leggere un tomo, dettagliato e con una bibliografia esauriente, ti rimando a Napoleone il Grande di Andrew Roberts.
Aggiornamento: modificata l'impaginazione. (Aggiornato il 22/12/2020)